Wilma Rudolph, la donna che non doveva camminare ed imparò a correre

Sconfigge la polio, diventa madre a 17 anni e vince tre ori a Roma ‘60: la bellissima storia di Wilma Rudolph, che trasformò il dolore in oro

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Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Pubblicato: 21 Maggio 2025 09:11

C’è un prima e un dopo Wilma Rudolph.

C’è un’America che non voleva vederla correre nemmeno per prendere l’autobus, e poi c’è un’Italia che l’ha vista volare sopra la terra rossa come una visione, come una preghiera esaudita per tutte le bambine nate con una disabilità, nere, povere, madri troppo presto.

Nel 1944, a St. Bethlehem, nel Tennessee segregato fino al midollo, nasce una bambina prematura, la ventesima dei ventidue figli del padre e la sesta degli otto della madre. È già troppo, già spacciata, già invisibile per quel mondo che misura il valore delle persone con il colore della pelle e il reddito familiare.
A quattro anni prende la poliomielite. Poi morbillo, scarlattina, pertosse, doppia polmonite. Una diagnosi come una condanna: “Non camminerà mai più”, dice il medico.

Ma Wilma ha una madre, e sua madre non ci sta. Sua madre ci crede, e se una madre ci crede, può riscrivere il destino di una figlia con la sola forza delle mani. Quelle mani che, per due anni, l’hanno accompagnata in autobus due volte a settimana per cinquanta miglia, sedute in fondo perché nere, per farle fare la fisioterapia in un ospedale per neri a Nashville.

Duecento viaggi, un tutore d’acciai, quattro sedute di massaggi al giorno per cinque anni. Una bambina che diventa un miracolo. Wilma cammina, Wilma corre, Wilma sfida i maschi per strada, Wilma li batte.

Nel 1956, a sedici anni, parte per le Olimpiadi di Melbourne, non ha ancora finito il liceo. Ha addosso la storia del corpo che non doveva funzionare e invece brucia la pista. Torna a casa con un bronzo, ma non le basta. “Il bronzo non brilla. Tornerò per l’oro”, dice. E lo fa.

Nel frattempo, diventa madre. A diciassette anni. Il suo allenatore non vuole mamme in squadra. Ma come fai a dire no a una che ha sconfitto la polio con i massaggi di quaranta mani e la forza di volontà? Wilma non corre solo per vincere. Corre per esistere. Corre per dire al mondo che non importa quante volte ti abbiano detto che non ce la farai. Che sei troppo povera, troppo nera, troppo donna, troppo rotta. Lei è tutte queste cose. Eppure vola. Roma, 1960, Stadio Olimpico.
Tre ori: 100 metri, 200 metri, staffetta 4×100.
Due record mondiali. Una leggenda. Una rivoluzione.

Il pubblico la chiama “la Gazzella Nera”. I francesi la Perla. Gli inglesi il “Tornado del Tennessee”, ma Wilma non è un soprannome. È un uragano con il sorriso, è la prova vivente che si può essere fragili e invincibili insieme.

Quel giorno a Roma non vince solo lei, vince la bambina col tutore, vince la madre che non si è mai arresa, vince ogni donna costretta a diventare forte da bambina, vince l’umanità che resiste, che corre, che cade e si rialza.

E poi c’è Livio, Livio Berruti. L’uomo più veloce d’Europa, l’italiano con gli occhiali da sole e il cuore che batte al ritmo dei 200 metri. Wilma e Livio si incontrano, si sfiorano, si piacciono. Un flirt pulito, tenero, romantico. La maestra nera d’America e l’ingegnere bianco di Torino, una favola leggera come la Dolce Vita, che scivola via lasciando un sorriso.

Wilma si ritira a 23 anni, insegna, fonda una scuola, aiuta i bambini a superare i loro ostacoli, perché lei quegli ostacoli li ha visti in faccia, li ha vinti, li ha perdonati.

Wilma Rudolph nel 1972
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Wilma Rudolph nel 1972

Diventa una delle donne più influenti d’America, ma resta sempre quella bambina con la gamba storta e il sogno dritto. Poi arriva il 1994, Wilma muore di tumore al cervello.

Muore come è nata: troppo presto, ma non se ne va da sola, intorno a lei, ancora una volta, ci sono le mani calde della sua famiglia. Quelle mani che un tempo le massaggiavano le gambe, ora le tengono stretta nel passaggio più difficile, quello in cui non si corre. Si vola.

Wilma ha scritto nella sua autobiografia: “Non bisogna mai sottovalutare il potere dei sogni e l’influenza dello spirito umano. Siamo tutti uguali sotto questa luce. Dentro ognuno di noi c’è il seme di una potenzialità che ci può rendere grandi.”

Ecco. Wilma Rudolph non è stata solo una campionessa olimpica.
È stata una luce.
Una gazzella nata quasi senza speranza, una bambina che non doveva nemmeno camminare, e che, invece, ha spaccato il cielo a forza di sogni.

Una madre bambina che ha riscritto la storia della velocità, una donna che non ha mai chiesto scusa per essere troppo. E che ci ha lasciato un’eredità senza medaglie: la certezza che niente è impossibile, se ci credi abbastanza da non fermarti mai.
Wilma non corre più.
Ma se chiudete gli occhi e ascoltate bene,
la sentite ancora.
Il battito di quei piedi leggeri, la corsa che spacca il silenzio, e quel sogno che brucia come oro.
Non chiamatela leggenda.
Chiamatela rivoluzione.